In sintesi, i 30 e passa anni e 20 e passa dischi che rappresentano la carriera dei Darkthrone vengono per forza di cose divisi in tre periodi, cioè quello indiscutibile del black metal degli esordi, quello molto discusso della cosiddetta “deriva crust-punk-hardcore”, e quello, a cui stiamo assistendo da più o meno quattro album (a seconda delle opinioni) e sul quale infatti si sta discutendo (e speriamo si discuterà ancora), caratterizzato da una rinnovata quanto ancora più “spiazzante” ricerca musicale, permessa da una ormai guadagnata e consolidata totale libertà artistica. Per farla breve, di fronte alle sette tracce (diversissime fra loro ma legate da un solido filo conduttore nei loro complessivi 43 minuti e 31) che compongono “It Beckons Us All…” le reazioni possibili sono in sostanza due: scuotere ancora una volta la testa in senso negativo e picchiettarsi la tempia col dito per la speranza tradita di ascoltare un “A Blaze In The Northern Sky part II”, oppure fregarsene dei preconcetti e iniziare a fare headbanging agitando il segno delle corna godendo della musica contenuta in questo disco. Questa recensione, di conseguenza, vorrebbe riuscire a spiegare ai primi il perché ci troviamo davanti un capolavoro, o almeno a un lavoro comunque da rispettare anche se proprio non si riesce ad apprezzarlo o tanto meno comprenderlo.
Tutti sappiamo chi sono i Darkthrone. O almeno crediamo di saperlo. Per alcuni sono ancora le figure in face painting delle pietre miliari del black metal norvegese, che però nel frattempo si sono persi per strada e magari vorrebbero vivere di rendita. Per altri invece sono due amici di una vita ormai cinquantenni, separati da centinaia di chilometri, con lavori e vita privata, ma che nonostante questo si appassionano ancora a fare musica in una modalità manageriale “da ragazzini”, totalmente aliena da certe logiche di mercato, due metallari audiofili drogati di musica che hanno ascoltato, ascoltano e apprezzano ogni cosa fatta dopo (ma anche prima) che Lord Tony Iommi componesse il tritono più famoso della storia del rock.Quello che è “capitato” ai Darkthrone, va quindi individuato nell’autenticità del rapporto fra persona e artista. Quando si hanno le competenze musicali di Gylve e Ted, quando si ha la totale libertà di azione e la stessa passione è inevitabile che quando componi vorresti comporre la musica che ti piacerebbe ascoltare, e sei influenzato dalla musica che ti piace ascoltare. Per capirci, in questo disco il cui titolo sembra volutamente riferito al celeberrimo verso di “Children of the Damned” degli Iron Maiden, i nostri riescono (stavolta definitivamente, direi) a sintetizzare il sound magico di un periodo dorato dei generi più oscuri, sperimentali ed estremi del metal degli anni ’80, quello di Hellhammer/Celtic Frost, Venom, Mercyful Fate, Candlemass, Voivod, Bathory… e sicuramente anche qualcos’altro che forse non ho capito neanch’io ma non fa niente, perché il risultato finale è davvero un grandioso esempio di “metal estremo primigenio”, quell’oscuro minimo comune denominatore sonoro indispensabile a qualsiasi gruppo che suoni un certo tipo di musica metal. I Darkthrone compongono perciò un disco caratterizzato da riffs monumentali ma accattivanti, intelligenti ed eleganti come pochi, elaborati nelle melodie per essere al contrario semplici e diretti, sempre con la tecnica messa a servizio dell’espressività; un maggior lavoro di arrangiamento dei brani con delle sorprendenti sovraincisioni delle armonie di chitarra; ritmiche di basso e batteria magistralmente legate, funzionali e dinamiche; parti vocali di Nocturno Culto ancora più impostate sull’inedito timbro “Cronos-Tom Warrior” rispetto al precedente “Astral Fortress”, e alternate al cantato pulito (!!!) di Fenriz ad interpretare testi forse semanticamente astratti ma anche foneticamente concreti nella loro evocativa funzione estetica. È possibile comporre una canzone sulla fauna ornitologica della Norvegia senza renderla per questo “meno metal”? Ascoltate “The Bird People of Nordland” e giudicate. Si può essere più Voivod dei Voivod o più Hellhammer degli Hellhammer senza minimamente avvicinarsi al plagio, anzi risultando tremendamente personali? Ascoltate “Black Dawn Affiliation” e “The Heavy Hand” e giudicate. E giudicate anche come, nonostante ormai non ci siano più blastbeats e chitarre lo-fi, le tracce di quel black metal “norvegese”, quello tipicamente eretico anche per i canoni del black metal, quello che si diverte a sperimentare con la voce pulita, a riarrangiare i riffs più velenosi dell’hard rock anni ‘80, a giocare con le tastiere e i sintetizzatori (come peraltro fatto più o meno sporadicamente già più di venti anni fa da Immortal, Dimmu Borgir e Satyricon, per non parlare dei “soliti” Mayhem) siano al tempo stesso sempre evidenti e presenti per tutto il disco, quasi a stoppare sul nascere qualsiasi discorso riguardo una presunta “evoluzione tradita”. Più semplicemente, i Darkthrone tornano alla radice del loro sound, di fatto reinventandosi, anche attraverso il migliorare considerevolmente la qualità audio della postproduzione in studio, e si sente.
In finale, qui c’è un album Metal fatto di canzoni Metal meravigliose, nonostante e proprio perché non è possibile catalogarlo in alcun genere preciso. Del vero e proprio “materiale resistente”, che personalmente sono portato anch’io a ritenere che nel futuro sarà tenuto nella stessa considerazione che abbiamo oggi verso, ad esempio, un “Blood – Fire – Death”, altro disco spaccacritica nel 1988 ma che oggi è ritenuto unanimemente un capolavoro. Godetevelo.
Voto: 10/10Paolo Wolvie
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